lunedì, agosto 28, 2006

XVIIII IL SOLE






CLORO, RUGGINE E SALIVA

Lui diede un colpo di clacson, e lei che lo aspettava seduta sulla tazza del gabinetto si alzò di scatto, scese rapida le scale e salì dietro di lui.
Il caldo era d’inferno.
Si erano solo baciati con la lingua una volta ma questa era la loro prima gita.
Stare sopra quella lambretta scrostata certo non le dava il brivido della velocità, ma il vento in faccia le piaceva, i capelli le svolazzavano arrabbiati e poteva stringerlo da dietro e giocare col suo°!°.
Lui le ripeteva basta che cadiamo.
Sembra la gelatina che mangio da mia nonna gli diceva ma adesso faccio una magia. Solidificazione dei corpi molli! E pensava alle lezioni di chimica sui passaggi di stato.
Per aderire meglio alla schiena di lui, lei era costretta a divaricare le gambe e spingersi in avanti. Così gli avrebbe fatto sentire le sue due @@. La via da per correre era quella che portava la sua mano destra a farsi strada nel costume leggero di lui.
Gli solcò con diligenza le vene che ormai si issavano sulle pareti ben tese, alzò ed abbassò ciò che doveva, ma il tessuto del costume le impediva di compiere un’escursione che la soddisfacesse o che potesse minimamente soddisfare lui. Allora dopo poco smise.
Che ridere, pensò lei tra sé, se fossero finiti contro uno dei tanti tigli che costeggiavano la strada.
I bagni Marquise non erano molto affollati quel giorno.
“Così?” le disse lui, tentando goffamente di agganciarle il reggipetto.
“Già che ci sei stringi un po’, questo costume si slabbra ogni anno di più, prima o poi dovrò decidermi a comprarne uno nuovo” – rispose lei reggendosi sopra la nuca i capelli fini e nerissimi.
La peluria delle sue ascelle era cosparsa di mille gocce di sudore e l’odore che emanava, misto di lavanda e caffè, non serviva a nulla. Asfissiati com’erano dal fetore rancido della stretta cabina.
Per un secondo lui si chiese perché sottoporsi alla tortura di quel sole implacabile, di quel cloro disgustoso e misto a piscio. Non sarebbe stato meglio smetterla di combattere e strappare tutto?
Diede un calcio alla porta della cabina e finì da sola di allacciarsi la parte superiore del costume. Corse veloce sulle scalette arrugginite del basso trampolino e senza nemmeno guardare sotto improvvisò un tuffo monco, risalì rapida e andò a distendersi a bordo piscina. Con un sorriso beota di anima semplice appagata dai miti dell’estate.
Lui era rimasto sulla soglia della cabina, immobile. Aveva osservato da lì la performance acquatica di lei e si decise ad uscire. Si sdraiò al fianco di lei, che non se ne accorse neppure. Si appisolarono inebetiti dalla luce torrida che bruciava loro i nasi e le spalle.
Dopo un paio d’ore di niente lei si svegliò, lo prese per mano e lo trascinò nella cabina senza nemmeno dargli il tempo di ricordare dove fosse.
Non aspettò nemmeno di ricevere un assenso da lui e cominciò a liberare i nodi dei suoi slip a righe. Cominciò a guardarlo col piglio lascivo che aveva imparato al cinematografo; poi si prese i seni tra le mani e cominciò a strizzarli leccandone la punta con la lingua e cospargendoli di saliva o bava, è uguale. Lui pareva non reagire.
Maledetto caldo pensò.
Allora lei gli si inginocchiò di fronte , cristo che duro questo legno. Gli abbassò il costume e tirò fuori la lingua quasi a fare una boccaccia.
La mano destra, supportata dalla lingua andava su e giù. E ancora, e ancora.
La sinistra ad accarezzare i °°.
Credo davvero che “palle” o “testicoli” siano parole odiose.
Lui rivolgeva il mento verso il soffitto della cabina in quella posa da cane ululante.
Lui, già uscito dalla cabina stava salendo le scale rugginose del trampolino.


Racconto di Cosetta sforbiciato da Marcuzzo.

giovedì, agosto 24, 2006

XVII LE STELLE






LE STELLE

Conoscevo di Stella ogni anfratto del corpo. E forse anche dell’anima: dubito che si potesse nascondere più giù ( o più dentro) di dove ero arrivato io con le dita, la lingua e il cazzo. E Stella aderiva alle mie esplorazioni, languida ed estenuante. Era rimasta bambina, per certi versi; non le bastava capire la forma delle cose con gli occhi e le mani, né saperne il nome e la composizione chimica: doveva mettersele in bocca e nella fica e nel culo. Solo allora la sua relazione col mondo le sembrava consapevole e soddisfacente, scientifica e amorevole. Non sempre il mio cazzo si tuffava negli abissi di Stella in solitudine, insomma. Certe volte c’era di che preoccuparsi, vi giuro. Stella sembrava intenzionata a cacciarsi dentro l’universo, buchi neri e pulsar compresi.
Era veramente una troia, diciamolo. E non le dispiaceva sentirselo urlare mentre le venivo nell’ombelico.
Conoscevo di Stella ogni anfratto del corpo. Ed è una palese falsità. Perché mentre si concedeva a qualsiasi perversione riuscissi a immaginare e anche a tutte quelle che immaginava solo lei, che erano molte di più, Stella rispettava e mi imponeva di rispettare un unico ma seccante tabù: non si toglieva mai il reggiseno. Mai.
All’inizio glielo chiedevo di continuo. Era diventata una litania, una specie di pornorosario ipnotico che accompagnava le nostre acrobazie erotiche: “Stella, ti togli il reggiseno?” “No, lo sai che non si può”, “Stella, ti togli il reggiseno?” “No, lo sai che non si può”, “Stella, ti togli il reggiseno?” “ No, lo sai che non si può” “Stella, ti togli il reggiseno?” “No, lo sai che non si può”…
Le portavo regali costosissimi, oppure semplici e romantici fatti con le mie mani, le chiedevo di sposarmi e la scopavo sedici ore di fila dopo essermi mangiato carriole di spaghetti al peperoncino, tartufo e Viagra, le giuravo che se si fosse levata il reggiseno per tre secondi sarei diventato il suo schiavo per sempre, ma niente. Stella restava irremovibile.
Poi un giorno, senza un motivo, senza che glielo domandassi, senza che qualcosa annunciasse minimamente l’evento che desideravo da mesi e mesi e mesi, Stella si tolse il reggiseno. Fu un gesto semplice, naturalissimo, un istante breve e indistinguibile dalla poltiglia di attimi che mi era sembrato di vivere fino ad allora in attesa di quell’unico barlume di significato.
Così vidi i suoi capezzoli.
Erano due stelline, due stelline di carne rosa e tenera come le disegnano i bambini, ricoperte di pelle leggermente più scura del resto del seno. Stella si sforzò di lanciarmi uno sguardo altero, carico di sfida, ma si capiva che si vergognava, che quello era il vero motivo per cui non si era mai lasciata vedere completamente nuda. Era arrossita. Anche questo non era mai accaduto.
Mi avvicinai, le accarezzai i capelli, le guance infuocate, le labbra soffici, poi mi chinai e le baciai le stelline.

Racconto di Marco Bosonetto.