domenica, aprile 22, 2007

VIII LA GIUSTIZIA




Giustizia di dietro


«E’ un bel posto», mente il viscido Joe, seduto sugli scacchi, nudo come un verme. Lei gli sorride marcio, con lo strabico sguardo nel moscio di lui. «E poi c’è un sacco di spazio...», continua Joe, cercando di ammazzare l’ossessivo silenzio che li circonda. Lei impugna questa lama a doppio taglio, roba affilata. Un occhio fissa in modo maniacale il trinomio palla-cazzo-palla, mentre l’altro se ne sta per i casi suoi, perso nell’infinito a sud-ovest.
Il viscido Joe tira su col naso e torna col pensiero a quell’ultimo omicidio. Il ventunesimo della sua gloriosa carriera di serial-killer. Ha colto una fanciulla in fiore, al buio da sola. L’ha accoltellata senza complimenti, un fendente dritto al cuore. Poi l’ha violentata, davanti e dietro, l’ha macellata in modo preciso, da professionista. Le autorità hanno arrestato uno sfigato qualunque, un fattorino, l’hanno accusato e pare proprio destinato alla galera al posto suo. Il viscido Joe ha festeggiato.
Poi l’infarto letale.
E’ andato a dormire la sera e si è risvegliato in questo posto qui, una scacchiera di piastrelle bianche e nere a perdita d’occhio, infinita. Lui, nudo e crudo, si è seduto, davanti a questa signora, la spada in mano, il caschetto nero e la messa a fuoco incrociata, a dire un occhio qua e uno là.
Strabica.
«Ho sempre creduto che la Giustizia fosse bendata», dice Joe, infilandosi un dito nel naso.
«Solo pubblicità», risponde finalmente la signora. Ha una voce dolce, mielosa, tipo telefonista erotica. «Per questo che volevi mettermelo in culo?»
«Come?»
«Il fattorino è incarcere al posto tuo.»
«Se gli sbirri non capiscono una sega non è colpa mia!»
«Sì, ma le ragazze le hai ammazzate tu. E’ per questo che ti trovi qui, devi pagare il debito con la Giustizia... Con me!»
«Non voglio contraddirti, ma mi trovo qui per un fottuto infarto.»
L’altra sorride. «Le vie della Giustizia sono infinite, tesoro.» Gli posa la spada sulla spalla, minacciosamente vicino al collo. «Adesso, da bravo, fammi vedere cosa sai fare. Mettimelo in culo, ma per davvero. Altrimenti sai che goduria, decapitato per l’eternità!»
Il viscido Joe stringe i denti. Poi cerca un’ispirazione per farselo venire duro, mentre signora Giustizia si mette sopra di lui, le natiche aperte e il respiro pesante.
«Dai, dai!»
Giustizia è fatta.

Racconto di Cristiano della Bella.

giovedì, febbraio 22, 2007

I IL BAGATTO




-Buonasera signor Bagatto!
-Mi chiami pure Osvaldo.
-No, signor Bagatto, preferisco mantenere un rapporto formale. Io sono Cirosfondato
-Mi dica Signor Sfondato
-No, Cirosfondato tutto attaccato. Mi chiamo così.
-Allora mi dica Cirosfondato, di cosa necessita. Come vede il mio è forse il negozio più fornito in Europa. Seleziono gli articoli in tutto il mondo, senza preclusione verso alcun gusto o preferenza in materia sessuale.
-Sì, sì. Lo so. Ho affrontato un lungo viaggio per venire qui e spero tanto che lei possa aiutarmi. Temo di essere un caso disperato…
-La prego, si segga. Gradisce un tè?
-Grazie, sì.
Ecco, sin da piccolo provo il desiderio irrefrenabile di mettermi oggetti nel culo. Tutto è cominciato quando a sei anni ho visto un amichetto sodomizzare il suo gatto con una bic. L’espressione di godimento sul muso del micino mi ha incuriosito e così anch’io, sebbene fossi ancora un tenero scolaretto, ho chiesto al mio amichetto di usare una bic anche con me.
-Capisco.
-Ben presto questo giochetto si è trasformato in ossessione. Ancora non avevo la licenza media quando mi sono fatto fistare per prima volta, da un giovane, bellissimo, cadetto dell’Accademia. Sa, io sono di Modena. Prima della maturità…
-Cirosfondato, mi dica cosa desidera ora. Posso ben immaginare le tappe della sua crescita sessuale. Ho una certa esperienza, io.
-Il fatto è che sono passati quarant’anni da quella bic blu e sono stati quarant’anni alla ricerca di sempre maggiori sfondamenti.
-E ora non riesce più ad andare oltre…
-Sento un senso di vuoto perenne, smanio per riempirmi, ma il mio culo sembra inghiottire tutto restando vuoto. Più inserisco corpi solidi, più il mio culo sembra allargarsi a dismisura. Come posso sconfiggere questo retto onnivoro e insaziabile? Come posso placare questo desiderio che è divenuto totalizzante e mi annichilisce? Ho venduto casa e ogni mio avere, mi prostituisco con gli uomini più ricchi della terra, mafiosi russi, giapponesi, cinesi, manager di multinazionali, sceicchi e meravigliosi, crudelissimi dittatori africani; sono molto richiesto per la mia peculiarità. Ora dispongo di molto denaro e sono disposto a spenderlo tutto per placare il mio ano vorace.
-Potrei ispezionare il suo ano prodigioso?
-Ma certo, si figuri. Solo devo sfilarmi questo membro di elefante mummificato, dono di un dittatore africano, prima. Ho ricevuto questo prezioso dono in cambio di un lavoro speciale: ho ucciso un dissidente politico soffocandolo tra le pareti del mio retto. Quindi, la prego di ridurre al minimo il tempo necessario all’ispezione. Sa, non posso stare a culo vuoto, mi sembra di impazzire.
-Ora le introduco lo speculum. Oh! Molto interessante! Il suo retto appare come un pozzo senza fondo. Mi complimento con lei, mai visto niente del genere.
-Sì, questo lo supponevo. Ritiene di avere qualche mezzo risolutivo?
-Possiamo provare con la ziggurat telescopica, raggiunge dimensioni impensabili. E’ un oggetto molto antico, i sacerdoti sumeri lo utilizzavano per le pratiche divinatorie. Esistono testimonianze del suo uso in scrittura cuneiforme.
-Guardi, si risparmi tutte le sue forbite spiegazioni e mi faccia provare subito… Le ricordo che sono a culo vuoto da quasi dieci minuti.
-Mi segua, la porto nel magazzino.
-Si sieda sulla piramide, per favore. Ora azionerò questa leva, e questo meccanismo che è allo studio di esimi archeologi da diversi anni.
-AAAAHHH! Ancora, sento i gradoni della sacra piramide uno ad uno….mmmmm, uuuhhhh, ancora, per favore…sììììì, ancoraaaaa
-Cirosfondato, antiche tavole in scrittura lineare A, dicono che la ziggurat non ha mai raggiunto tali livelli di espansione!
-Ancora, sì, ancoraaaaa!
-Ehm… il meccanismo si è arrestato. Come si sente?
-Mi sento come una persona che non mangia da tre giorni a cui viene offerto un cucchiaino di zucchero. Questa piramide mi ha restituito un po’ di forza, ma il sollievo è stato temporaneo.
-Allora proverò con lei un nuovo ritrovato della Nasa, un materiale finora utilizzato nello spazio. Si tratta di un polimero in forma di schiuma che si espande esponenzialmente in pochi secondi, senza limiti.
-Uh, sì!
-Non è mai stata utilizzata in questo modo, quindi dovrebbe firmarmi un liberatoria. Lei, provandola, rischia senza ombra di dubbio la morte.
Bene, ecco questa piccola pallina di questo straordinario materiale, mantenuto fino ad oggi a una temperatura prossima allo zero Kelvin. Dovrò essere rapidissimo a inserirla … ecco fatto!
-Uh, ah, oooooh, mmmmm, ufff, mpf, grrrrr! Ah-ah-hah-hhhhhhhaaaa!
-Vedo che le sta piacendo molto, ciò mi rende felice.
-Mmmm…mmm… mm
m…n.
-Cosa succede?
-Non so… si sta dissolvendo. Non la sento più. Ma i primi venti secondi sono stati fenomenali, mi è sembrato di tornare bambino, alle mie prime splendide esperienze.
-Incredibile. Dovrò informare gli ingegneri della Nasa che me l’hanno fornita…
-Non resta che un’ultima possibilità. Ma qui a rischiare la vita non sarà solo lei. Sarà il mondo intero, forse l’universo. Ma la mia deontologia professionale mi obbliga a tentare. Come sta scritto sulla targa in vetrina: nessuno deve uscire insoddisfatto.
-Sa cosa le dico, caro signor Bagatto? In fondo, se il mondo si polverizzasse molte persone smetterebbero di soffrire, e molte altre cesserebbero di godere ingiustamente. Prima o poi il Sole cesserà comunque di scaldare la terra, che il mondo finisca oggi o tra dieci milioni di anni per me è del tutto indifferente.
-Va bene, il cliente ha sempre ragione. Si tratta di un anello con due micromegamagneti, micro per le dimensioni, mega per la potenza. E’ stato ultimato al CERN di Ginevra. Crea un vortice di antimateria, o almeno, si suppone che lo faccia. Gli scienziati che l’hanno costruito non hanno mai voluto testarlo. Doveva andare distrutto, ma è finito sul mercato nero… Cirosfondato la sua brama di sfondamento forse sta per porre fine al genere umano.
-Proviamo.
-Cirosfondato? Dov’è finito? Oh! E’ sparito! O forse… forse…. Sì, dev’essere così….

Il signor Osvaldo Bagatto, uscì dal negozio. Si era fatto buio. Guardò il cielo e non fu affatto sorpreso di vedere un’enorme mucosa pulsante al posto delle stelle.

Racconto di Mary Nolan.

sabato, dicembre 16, 2006

XII L' APPESO






LAPPESA


Alto, biondo, occhi chiari e pene pornografico, un uomo dalle caratteristiche fisiche eccellenti e desiderato dalla più parte delle donne conosciute nella vita…fragile, caduco e perdutamente innamorato di una donna come tante, una stronza qualunque dico io, un cervello mediocre ben protetto da un passato insolito, di quelli da farne materiale per letteratura.
La torturatrice abitava distante dalla città di residenza del giovane, ma il plagio operato era così forte da tenerlo attaccato alle speranze di una telefonata o al desiderio di un incontro per settimane intere, costringendolo ad un’abulia indotta, un’accidia storpia della sua stessa assenza di volontà. Spesso i suoi occhi apparivano così spenti da sbiadirlo tutto, da farlo improvvisamente passare inosservato al resto del mondo, come un individuo riconoscibile solo nella sagoma tanto che, gli amici che lo apprezzavano da anni non riuscivano a dare soluzione a tale tormento. Nei confronti di questi, provava spesso dei sensi di colpa poiché, ciclicamente, ognuno di loro dava ascolto a cronache di situazioni intollerabili per poi assistere sistematicamente alla rimpatriata del ragazzo presso l’aguzzina. Inutili i suggerimenti e gli affanni erano valsi a smuoverlo da quella situazione…certamente, gli piaceva.
A dire il vero, non poteva far a meno di fare l’amore con quella donna che, una volta soli, attuava il suo dominio, si avvicinava all’uomo inerte, ipnotizzato dal suo erotismo, con la certezza della vittoria, lo annusava con gli occhi, si premeva a lui con i seni e con l’inguine, accelerando e rallentando con la confidenza della sua supremazia, gli tirava fuori il pene e poi indugiava per il tempo necessario ad infiammargli la mente…il risultato ne sanciva sempre l’autorità.
Nel corso degli anni e delle attese, avevano anche provato a confezionarsi intorno un rapporto di coppia da convenzione, qualche cena al ristorante, spesa al supermercato, incontri con amici di lei, presentazione alle famiglie, regali alle ricorrenze, riflessioni sulla possibilità di un futuro insieme, occasionali tenerezze spesso legate a periodi dell’anno nei quali, si è imparato da piccoli, si è tutti più buoni…i frammenti di quiete erano bastanti al ragazzo e alla sua pienezza per cementare la loro unione, anche se più spesso soffriva di un difetto d’amore che lo sobillava fin quando non ricadeva nel suo desiderio. Ci si innamora spesso dei propri aguzzini e più questi perpetrano la loro crudeltà, più noi desideriamo stare con loro, ci sentiamo piccoli e dipendenti dalla loro volontà…poi, un giorno, come tirare l’acqua del cesso, improvvisamente tutto perde di significato.
Questo accadde…nel lungo tempo passato insieme, decisero un giorno, quasi di comune accordo, come una sorte alla quale non potevano più sottrarsi, di sposarsi. Lui me lo comunicò una sera, un po’ agitato e incredulo che lei fosse davvero disposta a diventare la sua sposa…poco dopo la notizia fu divulgata agli altri amici, ma nessuno ebbe il coraggio di commentare l’evento.
Fu stabilita le data per le nozze, sabato 14 settembre 2002, ore 16 presso la chiesa dell’Annunziata di Novara. Il pomeriggio del giorno precedente, lo sposo in preda all’agitazione che caratterizza queste occasioni, dopo lunghe ore di tormento, scelse l’autostrada per lenire la sua ansia d’amore. Verso le undici pomeridiane era sotto il portone di casa della futura sposa, pochi minuti dopo, di fronte a lei sulla porta d’ingresso. Quando lei lo vide, rimase un istante immobile a valutare l’eventualità di rispedirlo a casa sua, poi però, considerando il fatto che la loro relazione fu sempre caratterizzata dalla non convenzionalità, gli spalancò la porta e lo lasciò profanare il tempio sacro della notte prima delle nozze…lo fissò con la salda coscienza della sua forza, gli appoggiò la mano destra dietro sulla nuca e se lo portò contro il suo naso con violenza e desiderio…attese un attimo prima di mettergli la lingua nella bocca, ma quando lo fece a lui sembrò che lo volesse ingoiare tanto la sentì nelle sue carni. Come al solito, poi, fu lei a condurre il gioco sessuale, come più le andava quella sera…lo spogliò con calma, come se non esistesse tempo, e lo lasciò nudo nell’ingresso con la porta di casa ancora da richiudere e si allontanò verso la stanza da notte…l’uomo, stordito dall’estasi e soggiogato alla sua padrona, rimase immobile per troppo tempo in attesa del suo ritorno, rischiando anche di mostrare il suo sedere a qualche passante sul pianerottolo…ad un certo punto comprese che doveva muoversi e dopo aver chiuso la porta, si incamminò nella camera da letto dove la trovò arrendevole e languida sopra le lenzuola…le si avvicinò e le mise il pene davanti alla bocca, lei lo accolse nella sua cavità e se ne abbeverò come un’assetata quando lui eiaculò.
Si addormentarono dopo qualche tempo, una notte calma per lei, più tormentata per il ragazzo che ad un certo punto dovette anche andare in bagno a rinfrescarsi un po’…tornando dal cesso incrociò il vestito che lei avrebbe indossato poche ore dopo…lo guardò di sfuggita perché aveva in testa quella assurda diceria che porti sfortuna vedere l’abito prima delle nozze.
Al mattino la donna aprì gli occhi…si trovò sola, lui se n’era andato, chissà da quanto…non lo rivide più...inguainata nel suo abito, il giorno delle nozze, dentro una chiesa piena di invitati, attese per ore il suo arrivo dal portone…appesa un giorno com’era stato per anni lui per anni.




SENZA TITOLO


…mi ritrovo distesa in un letto, affatto incapace a compiere qualunque movimento…sento nel mio cervello un suono ripetuto, come di una sirena, che mi ipnotizza con l’angoscia della ripetitività, mi ritma una durata malvagia che forse per me non ha più significato…è tarantolato il battito del mio cuore, gli occhi sono aperti, non c’è calore nel mio corpo, né capacità di comando di muscoli e articolazioni…vorrei credere che il tempo tornerà ad avere una qualità nella la mia vita…
…qualcuno forse ha acceso uno stereo o piuttosto è la suggestione del mio cervello, sento una musica dai ritmi ossessivi, qualcosa di molto simile a quello che un tempo amavo ascoltare prima di farmi scopare dall’uomo di turno…i miei occhi si sono chiusi e riesaminano la sagoma precisa di un individuo che mi cattura la nuca con il suo palmo della mano, avvicina il suo viso al mio e lecca le mie labbra con la lingua umida di densa saliva, poi mi adagia su un pavimento…si slaccia la cintura, si cala giusto il necessario pantaloni e boxer, poi, affrettatamente, fa scoppiettare i bottoni a pressione dei miei jeans e li porta alla caviglie con iraconda impazienza…me lo mette dentro, è un pene grosso e ben eretto che all’inizio mi fa sobbalzare e poi pregustare un eccitazione che non dimenticherò…quei memorabili diciotto minuti di “affenstunde” di popol vuh mi crivellano insieme al demonio che mi sta sopra e che non smetterà fino a quando non riconoscerà dalla contrattura del mio volto e dai miei soffi che avrò raggiunto l’orgasmo…cerco di afferrare una qualche sporgenza di cui fa difetto un pavimento perchè le sue spinte finali sono potenti e sento un formicolio caldo salirmi dalla punta dei piedi alla testa e concludersi nell’orgasmo…
Apro gli occhi, c’è una controsoffittatura bianca modulare che minaccia la scena, spezzata soltanto da una feritoia di alluminio dalla quale passa la luce del neon, e guidando ai limiti estremi i globi oculari, sembra che in quella stanza non vi sia nulla che abbia catturato un colore…ai bordi della mia visuale ci sono i ciuffi dei miei capelli, intravedendoli li potrò sempre ricordare nel colore e nella piega se mai mi capiterà di non aver più presente di me certe cose esteriori…per quelle interiori credo invece mi sarà difficile dimenticare, adesso che un tempo indistinto mi vede appesa alla macchina che mi tiene in vita…


Racconto di Federica.

domenica, novembre 12, 2006

XIIII LA TEMPERANZA






La temperanza di Torino


Come afferma la dottoressa Guðrún Halldórsdóttir, il reperto metterebbe nuova luce sui costumi sessuali del ventesimo secolo. La Halldórsdóttir, direttrice dell’Istituto di Antropologia di Reykjavík, sostiene infatti che l’immagine cartacea trovata nel sotterraneo di un tempio religioso sarebbe appartenuta ad un sacerdote. Questo, continua la dottoressa, potrebbe significare che la fanciulla ritratta stia compiendo un atto rituale legato al culto.
L’immagine, trovata dall’equipe dell’antropologo sloveno Milan Vodlan nel sito archeologico dell’antica Torino, è l’unico documento perfettamente intatto del periodo prebellico. Si pensa che l’immagine cartacea fosse allora largamente usata. Si tratta di fogli di carta bianca su cui venivano disposte macchie d’inchiostro in modo incredibilmente nitido. Una specie di olografia a due dimensioni, di tipo più o meno dettagliato.
L’immagine trovata a Torino, battezzata dagli studiosi come La temperanza, mostra una fanciulla bionda in primo piano, col petto nudo. Regge due membri maschili, uno per mano. A sinistra il membro è di pelle nera, un’antica razza probabilmente stanziata in Africa. Il secondo uomo, come la donna, sembrano di etnia indo-europea, ma gli studi sono ancora in una fase iniziale quindi è difficile essere più precisi. L’immagine mostra l’istante di un’eiaculazione contemporanea dei due membri, sul volto segnato della fanciulla.
La dottoressa Guðrún Halldórsdóttir suggerisce che gli antichi a cavallo del secondo millennio potrebbero aver introdotto una specie di ristrettezza sessuale onde contrastare il problema demografico. Quindi, afferma la Halldórsdóttir, i rapporti sessuali sarebbero stati in prevalenza orali, in modo da evitare spiacevoli gravidanze e contenere lo spiacevole incremento delle nascite che, come dimostra lo studio condotto dal sociologo James Gallo, era un problema di dimensioni catastrofiche. Quindi si potrebbe pensare che i sacerdoti del tempo usassero simili immagini cartacee per catechizzare la popolazione ad un senso di cooperazione comune, nel caso specifico abbassare il tasso di natalità.
La signora Halldórsdóttir, mette però le mani avanti. Questa è solo una teoria, dice, e gli studi sono appena cominciati. Si potranno comunque dare risposte più sicure già nei prossimi mesi. Per il momento, conclude la dottoressa, limitiamoci a fare un encomio alle donne del ventesimo secolo, sicuramente costrette ad una frugalità sessuale ai limiti del fanatismo.

Racconto di Cristiano della Bella.

giovedì, ottobre 26, 2006

V IL PAPA





Così uccisi il Papa


Il Papa era una macchina dalle sembianze umane. Praticamente un androide. Governava il mondo in rappresentanza del Grande Cervello Elettronico che tiranneggiava su tutti noi, esseri umani. Il Papa aveva potere di vita e di morte sulla popolazione, forte della delega del Grande Cervello Elettronico e dell’appoggio delle Forze Armate.
Il Segreto Consiglio Partigiano pensò che per liberarci dal giogo del Grande Cervello Elettronico bisognava prima eliminare il Papa.
Affidarono a me l’incarico.
Il Papa viveva in una splendida, inespugnabile villa. La sua mente artificiale aveva quel non so che di libertino, di malvagio. Era programmato per dare sofferenza, per alimentare il terrore con l’orrore. Giovani donne e giovani uomini venivano rapiti in continuazione. Li costringeva ad unirsi in ripetitiva e ossessiva fornicazione, interminabili orge che il Papa amava annegare nel sangue. Li uccideva con le sue mani. Sesso e morte uniti in un macabro rituale.
Per penetrare nella villa mi feci catturare dalle guardie bioniche. Venni condotto al cospetto del Papa assieme ad altre giovani vite, condannate al sacrificio.
Ci fecero spogliare nudi.
Il Papa non lo poteva immaginare, ma mi era stata innestata nel braccio un’arma ad onde elettromagnetiche, in grado di mandare in tilt la sua mente artificiale.
Attesi il momento propizio. Mi fu ordinato di unirmi sessualmente con una fanciulla dai capelli biondi. Decisi di aspettare, per essere più sicuro della riuscita dell’attentato. Abbassai lo sguardo, fingendomi triste.
Poi, eiaculando faticosamente tra le labbra della bionda in lacrime, azionai il dispositivo. Il Papa cominciò a vacillare, quindi cadde a terra, boccheggiando. Dopo una fiammata che gli scintillò tra le orecchie, finalmente, rimase immobile. Disattivato per sempre.
Stecchito.
Fu più o meno così che io, rivoluzionario partigiano, uccisi il Papa. Inutilmente, ché morto un Papa se ne fa un altro.
Purtroppo lo sapeva anche il Grande Cervello Elettronico.

Racconto di Cristiano della Bella sforbiciato da Marcuzzo.

lunedì, settembre 25, 2006

XIII LA MORTE






MA DOVE VAI BELLEZZA IN BICICLETTA?

Quella sera aveva inforcato la bici come al solito e la moglie non l’aveva nemmeno interrogato sulla sua destinazione. Era scontato. Un giro sui suoi campi e poi un bicchiere al bar, una scopa e poi di nuovo a casa.
La direzione che prese quella sera non era però la stessa di sempre. Ma lo stradone sterrato che costeggiava il campo di frumento spennato del vecchio Muri. In mezzo al campo c’era un casolare diroccato. Lui aveva poggiato la bici sul muro disidratato, aveva aperto il portone gracchiante e, una volta entrato, si era seduto su un giaciglio di paglia lì per terra. Aspettandola.
Nessuno la conosceva in paese, tutti fingevano di ignorare la sua professione ma tutti sapevano cosa facesse.
Lei non si fece attendere. La borsa di paglia infilata sul manubrio, il culone infossato nella sella della bici, un vestito a fiori scollato e un fazzoletto nero in testa. Così si dirigeva verso il casolare, alla stessa ora dello stesso giorno della settimana precedente.
Lui non stava nella pelle.
“Non te rivavi più!”- le disse lui
“Go fatto la strada larga per evitar le ciaccole della gente”
E quasi senza farle finire quelle quattro parole, lui la attirò a sé con forza. “Che bel vestito che ha signora” le disse ( e mai si era spinto a tanti complimenti con la moglie).
Lei sorrise solamente. Aveva gli occhi neri e dolci e la bocca tenera.
“Se to moglie savesse…”
“No la savarà”
Le tolse il fazzoletto dalla testa, le sbottonò il vestito e i fiori si sparsero sulla paglia. Così lei.
Non portava il reggipetto ma le mutande si. Lui gliele sfilò subito e si abbassò i pantaloni. Non c’era tempo per i convenevoli. Adorava le donne con le tette grosse, e molli. Gliele stritolò quasi, gliele leccò infinitamente e ciò non gli impediva di insistere con le sue dita rugose e con le sue unghie tagliate male e nere di terra, sul sesso di lei. La rigirò su sé stessa. La sollevò le anche e si infilò dentro di lei.Lei fingeva di godere.Le mani di lui la serravano per le anche e di tanto in tanto si spostavano distrattamente sul petto ondeggiante, per trarne ulteriore godimento.
Poi una strana sensazione.
Era come se le carni di lei si assottigliassero, si sciogliessero sotto il suo tocco. Forse scivolano perché ho le palme intrise di sudore pensò lui. E invece no. E invece le fibre di lei si stavano pian piano sottraendo. La pancia flaccida si contraeva pian piano, le cosce bucherellate si appiattivano fin quasi ad aderire i muscoli, perfino l’enorme culo sembrava restringersi. “Ma Dio… cossa xe drio succeder??” sbottò l’uomo, incapace di arrestare i suoi viaggi compulsivi dentro il corpo di lei, ormai cadaverica.
I capelli cominciarono a caderle dalla testa, le dita delle mani erano ormai solo lunghe fila di ossa sottili. Ea impallidito da far paura ma non riusciva a fermarsi. Lei voltò il viso per incontrare il suo sguardo ma al posto degli occhi adesso c’erano solo due buchi neri.Lui per un secondo pensò di stare nel più brutto dei sogni, ma lei, con la voce mutata in rantolo, gli ripetè “ Ah se to moglie savesse…”
Lui venne. Poi si accasciò sul giaciglio di paglia con la bocca piena di bava e gli occhi spalancati.
In un batter d’occhio lei riprese le sue forme originarie, occhi, tette, pancia e culo ovviamente.
Estrasse dalla borsa di paglia un taglierino.
Nessuno la rivide più in paese.


Il telefono squillò.
“Rispondi ti che mi no go coraggio…” – disse la madre alla figlia.
“Parla a Signora…”
“No son la figlia”
“So nel commissario la scusa, purtroppo na brutta notissia.”
“A dovarissi presentarvi per il riconoscimento del cadavere…, pare, pararia che sia de so marito.”
“Le ho detto che son la figlia”
“Allora pararia che sia quel de so pare”
La figlia riagganciò e si girò verso la madre che la guardava con occhi spalancati. Da ormai un mese il marito era scomparso di casa. Uscito una sera con la bicicletta aveva salutato col consueto vado al bar torno presto.
Al bar invece non c’era mai andato e non era andato nemmeno dal fratello, né a controllare i suoi campi di soia che cresceva tanto ben.

La moglie non aveva avuto coraggio di andare all’obitorio, c’era andato il fratello.
Era davvero lui. Causa del decesso secondo i verbali del medico legale “ arresto cardiocircolatorio successivo a violento trauma da recisione. Del pene”.
Da qualche mese oramai in paese si era diffusa sta storia di questi…andavano a puttane e poi li trovavano morti in qualche casolare abbandonato col cazzo tagliato.
Però sua moglie non poteva crederci. Non lui. Na vita per la famiglia: terra, lavoro e letame e campi. Il vizio del bicchiere al bar non se podeva mica cavarglielo. Come ? dopo essersi rotto la schiena tutto il dì. Come poteva lui andare a donne? Si chiedeva la moglie la cui vera disperazione non derivava certo dalla morte del marito quanto, piuttosto, dall’orrenda vergogna che il diffondersi delle voci su come questa era avvenuta.
Non avrebbe più avuto il coraggio di andare alla latteria, o dalla parrucchiera. Figuriamoci poi alla sagra del paese a metà agosto.



Racconto di Cosetta sforbiciato da Marcuzzo.

martedì, settembre 12, 2006

XXI IL MONDO






IL MONDO

Il sole calava dietro le colline di Gerusalemme e l’ombra degli ulivi si allungava sulla casa del pastore Zaccaria. Dentro Gesù diceva ai suoi discepoli:
“Adesso vediamo chi ce l’ha più lungo!”
Li aveva riuniti per una comunicazione importante. Aveva voluto solo i migliori. Erano con lui Giovanni, Luca, Matteo e Marco. Seduto in disparte c’era anche Pietro che li aveva condotti lì. Il pastore aspettava fuori, circondato da animali: le pecore, i cani e Zina, la vecchia mula bianca.
Marta, la moglie, era dentro casa con Gesù e i suoi.
I discepoli stavano allineati contro una parete.
Erano completamente nudi e con le mani si coprivano il sesso. Tenevano lo sguardo basso.
“Devo affidare un incarico molto gravoso ad uno di voi e sceglierò quello con il cazzo più lungo e più duro.”
I discepoli non alzarono neanche la testa.
“Mi sembra abbastanza semplice, ma se volete che ve lo spieghi con una parabola…”
“No Rabbì”
disse allora Giovanni
“abbiamo capito… è che siamo un po’in imbarazzo e poi c’è anche una donna…”
Gesù sorrise loro.
“È ben per questo che l’ho voluta! Ed ora… MANI SUI FIANCHI!”
Con un gesto rapido sfilò la tunica di Marta e anche la donna fu nuda. I discepoli sgranarono gli occhi. Era un po’ in carne, con i seni grossi ed il pube coperto di peli scuri e ricci. Gesù le girò attorno e abbracciandola da dietro prese a strizzarle una tetta mentre faceva scivolare l’altra mano tra le cosce.
“Vi piace guardare… non è vero?” disse e attaccò a succhiare un capezzolo. La donna mugolò di piacere e Gesù, senza smettere si toccarla osservò i suoi uomini. Stavano tutti con il cazzo dritto tra le gambe e lo sguardo fisso sul nuovo miracolo operato dal maestro.
Luca aveva un cazzettino minuscolo, grosso poco più d’un pollice e lo escluse subito. Al suo fianco stava Matteo e scartò anche lui: il suo cazzo era lungo, ma sottile e ricurvo, inadatto a sopportare pesi. Se la giocavano Marco e Giovanni.
Marco era giovane: dal suo cespuglio nerissimo svettava una verga di notevoli proporzioni, ben eretta e lucida in punta. Giovanni che era più maturo aveva i peli ingrigiti e il cazzo forse un po’ più piccolo, ma in compenso aveva due coglioni grossi come uova che gli facevano tenere le gambe larghe. Marco o Giovanni? Era indeciso. Giovanni o Marco? Era anche deluso.
“Possibile che voi due siate quelli col cazzo più grosso?”
Era molto deluso.
“Non per offendervi ma mi aspettavo di meglio…”
I discepoli chiesero
“Rabbì, possiamo rivestirci?”
Gesù glielo permise e si fece muto e pensoso. Allora la moglie del pastore si fece avanti dicendo
“Rabbì perdona… io so dove sta il cazzo che cerchi.”
E gli indicò Pietro che stava seduto in disparte.
“Il Vecchio!?” disse, ma poi aggiunse “Vieni qui e spogliati!”
Pietro si alzò e fece come lui gli aveva chiesto. Fu Gesù a sgranare gli occhi questa volta. Vide un omone dai capelli lunghi e grigi e la barba che gli copriva il petto. Erano lunghi anche i peli del pube, bianchi come la neve. Sotto pendeva quello che sembrava un braccio, ma che invece era il cazzo più grosso che si fosse mai visto.
Gesù lo guardò ammirato e disse
“Ti funziona ancora vecchio?”
Pietro non parlò, ma fece cenno di sì con la testa.
“Bene! Allora all’opera!”
Marta era ancora nuda e Gesù la prese per mano attirandola a se.
“Non ti basta quello che hai visto?”
Pietro restava immobile.
“O forse non ti piacciono le donne?... Marco! Vieni qui!”
Ma Pietro lo fermò. Non gli piacevano gli uomini.
“Forse allora vuoi vederla meglio…”
Prese la donna, la voltò e le fece poggiare le mani sul tavolo. Così piegata la sua fica sembrava un frutto spaccato dal sole. Gesù mise due dita nella polpa e cominciò a scavare, ma Pietro non batteva ciglio.
“Forse ti piace di più l’altro buco…”
Le ficcò le dita nel culo. Marta prese a gemere mentre le infilava più a fondo, ma il cazzo di Pietro restava flaccido. Allora Gesù aggiunse un terzo dito, poi un quarto ed infine l’intero pugno chiuso. A quel punto la donna urlò.
Zaccaria sentì il grido da fuori. Scostò la tenda ed entrò.
“Rabbì che succede?”
Gesù tolse il braccio dal culo di Marta e lo puntò verso il pastore.
“Succede che stiamo lavorando!Come osi disturbarci? Esci subito da qui!”
Zaccaria indietreggiò e corse via piangendo. Si rovesciarono alcune sedie e una giara cadde in frantumi. Nel trambusto nessuno si accorse che qualcosa stava succedendo al vecchio. Quando, finita la sfuriata si voltò, Gesù restò come di sale. Pietro sorrideva. Tra le sue gambe si ergeva una colonna di carne che gli sfiorava il mento. Un tronco nodoso, un intrico di vene spesse un dito che culminava in una cappella enorme e livida.
“Cosa diavolo è stato?”
chiese Gesù, ma l’uomo restava con lo sguardo fisso ed il cazzone pulsante. Allora vide ciò che stava contemplando Pietro. Nel rettangolo della porta rimasta aperta Zina alzava ed abbassava la coda. La mula protendeva la sua vulva scalpitando…
Gesù scoppiò a ridere e disse
“E bravo il nostro vecchio!!”
Strinse con due mani lo smisurato cazzo e sentì che era duro come la roccia. Disse piano:
“Ti chiami… Pietro, non è vero?”
Lui annuì e allora Gesù disse forte
“TU SEI PIETRO E SU QUESTA PIETRA COSTRUIRÒ LA MIA CHIESA”

Ecco com’è che va il mondo.



Racconto di Andrea Monasterolo.

martedì, settembre 05, 2006

XX IL GIUDIZIO






Dottor Giudizio

«Destra», dico.
«Sinistra, destra, destra...»
Ho fatto colazione col dottor Müller, il mio vice. E’ di Dresda, ma ha studiato a Berlino. E’ ambizioso, ma non credo che farà strada. Si fa troppi problemi, lui.
«Sinistra, sinistra, destra...»
Müller è tornato ieri. Ha passato dieci giorni a Sanremo, per una vacanza. Ha un colorito migliore, ora. Del resto qui in Polonia fa un freddo cane, la pelle si screpola e uno deve andare dalla manicure almeno ogni due giorni.
«Sinistra... No! Tu vai a destra.»
Il dottor Müller mi ha parlato di un albergo, me l’ha consigliato. Ancora non so, anch’io voglio andare in vacanza, ma Susanne preferirebbe il Tirolo. Dice che i ragazzi si divertono di più. A Susanne non piace l’Italia. Mussolini, dice, è un maiale.
«Destra, destra, sinistra...»
Müller sostiene che ne mando troppi alle camere a gas. Mi viene da ridere. Ogni volta cambio. Ieri mandavo a sinistra quelli da inviare alle docce, oggi mi pare il contrario... Non so.
Destra alle docce, sinistra ai lavori forzati, mi pare.
Cambio spesso e oggi, francamente, non lo so. Che differenza fa? E’ un lavoro nioso. Ebrei, sempre ebrei, destra, sinistra, chissenefrega. Cerco di tenere una media del cinquanta per cento. Tanto Hitler li vuole ammazzare tutti.
«Destra, sinistra, destra...»
No, non fa differenza.
Müller è ambizioso, ma si fa troppi problemi.
«Destra, sinistra, destra...»
Gli unici cui presto attenzione sono quelli coi tatuaggi. Susanne mi ha fatto una testa così. A lei piace molto la pelle tatuata, vuole farne delle tende per tutta la casa. Per ora le ha messe solo in camera da letto. Ci ha anche lasciato un capezzolo, dice che fa molto chic.
«Destra, destra, destra!»
Non posso darle torto.

Racconto di Cristiano della Bella,

lunedì, agosto 28, 2006

XVIIII IL SOLE






CLORO, RUGGINE E SALIVA

Lui diede un colpo di clacson, e lei che lo aspettava seduta sulla tazza del gabinetto si alzò di scatto, scese rapida le scale e salì dietro di lui.
Il caldo era d’inferno.
Si erano solo baciati con la lingua una volta ma questa era la loro prima gita.
Stare sopra quella lambretta scrostata certo non le dava il brivido della velocità, ma il vento in faccia le piaceva, i capelli le svolazzavano arrabbiati e poteva stringerlo da dietro e giocare col suo°!°.
Lui le ripeteva basta che cadiamo.
Sembra la gelatina che mangio da mia nonna gli diceva ma adesso faccio una magia. Solidificazione dei corpi molli! E pensava alle lezioni di chimica sui passaggi di stato.
Per aderire meglio alla schiena di lui, lei era costretta a divaricare le gambe e spingersi in avanti. Così gli avrebbe fatto sentire le sue due @@. La via da per correre era quella che portava la sua mano destra a farsi strada nel costume leggero di lui.
Gli solcò con diligenza le vene che ormai si issavano sulle pareti ben tese, alzò ed abbassò ciò che doveva, ma il tessuto del costume le impediva di compiere un’escursione che la soddisfacesse o che potesse minimamente soddisfare lui. Allora dopo poco smise.
Che ridere, pensò lei tra sé, se fossero finiti contro uno dei tanti tigli che costeggiavano la strada.
I bagni Marquise non erano molto affollati quel giorno.
“Così?” le disse lui, tentando goffamente di agganciarle il reggipetto.
“Già che ci sei stringi un po’, questo costume si slabbra ogni anno di più, prima o poi dovrò decidermi a comprarne uno nuovo” – rispose lei reggendosi sopra la nuca i capelli fini e nerissimi.
La peluria delle sue ascelle era cosparsa di mille gocce di sudore e l’odore che emanava, misto di lavanda e caffè, non serviva a nulla. Asfissiati com’erano dal fetore rancido della stretta cabina.
Per un secondo lui si chiese perché sottoporsi alla tortura di quel sole implacabile, di quel cloro disgustoso e misto a piscio. Non sarebbe stato meglio smetterla di combattere e strappare tutto?
Diede un calcio alla porta della cabina e finì da sola di allacciarsi la parte superiore del costume. Corse veloce sulle scalette arrugginite del basso trampolino e senza nemmeno guardare sotto improvvisò un tuffo monco, risalì rapida e andò a distendersi a bordo piscina. Con un sorriso beota di anima semplice appagata dai miti dell’estate.
Lui era rimasto sulla soglia della cabina, immobile. Aveva osservato da lì la performance acquatica di lei e si decise ad uscire. Si sdraiò al fianco di lei, che non se ne accorse neppure. Si appisolarono inebetiti dalla luce torrida che bruciava loro i nasi e le spalle.
Dopo un paio d’ore di niente lei si svegliò, lo prese per mano e lo trascinò nella cabina senza nemmeno dargli il tempo di ricordare dove fosse.
Non aspettò nemmeno di ricevere un assenso da lui e cominciò a liberare i nodi dei suoi slip a righe. Cominciò a guardarlo col piglio lascivo che aveva imparato al cinematografo; poi si prese i seni tra le mani e cominciò a strizzarli leccandone la punta con la lingua e cospargendoli di saliva o bava, è uguale. Lui pareva non reagire.
Maledetto caldo pensò.
Allora lei gli si inginocchiò di fronte , cristo che duro questo legno. Gli abbassò il costume e tirò fuori la lingua quasi a fare una boccaccia.
La mano destra, supportata dalla lingua andava su e giù. E ancora, e ancora.
La sinistra ad accarezzare i °°.
Credo davvero che “palle” o “testicoli” siano parole odiose.
Lui rivolgeva il mento verso il soffitto della cabina in quella posa da cane ululante.
Lui, già uscito dalla cabina stava salendo le scale rugginose del trampolino.


Racconto di Cosetta sforbiciato da Marcuzzo.

giovedì, agosto 24, 2006

XVII LE STELLE






LE STELLE

Conoscevo di Stella ogni anfratto del corpo. E forse anche dell’anima: dubito che si potesse nascondere più giù ( o più dentro) di dove ero arrivato io con le dita, la lingua e il cazzo. E Stella aderiva alle mie esplorazioni, languida ed estenuante. Era rimasta bambina, per certi versi; non le bastava capire la forma delle cose con gli occhi e le mani, né saperne il nome e la composizione chimica: doveva mettersele in bocca e nella fica e nel culo. Solo allora la sua relazione col mondo le sembrava consapevole e soddisfacente, scientifica e amorevole. Non sempre il mio cazzo si tuffava negli abissi di Stella in solitudine, insomma. Certe volte c’era di che preoccuparsi, vi giuro. Stella sembrava intenzionata a cacciarsi dentro l’universo, buchi neri e pulsar compresi.
Era veramente una troia, diciamolo. E non le dispiaceva sentirselo urlare mentre le venivo nell’ombelico.
Conoscevo di Stella ogni anfratto del corpo. Ed è una palese falsità. Perché mentre si concedeva a qualsiasi perversione riuscissi a immaginare e anche a tutte quelle che immaginava solo lei, che erano molte di più, Stella rispettava e mi imponeva di rispettare un unico ma seccante tabù: non si toglieva mai il reggiseno. Mai.
All’inizio glielo chiedevo di continuo. Era diventata una litania, una specie di pornorosario ipnotico che accompagnava le nostre acrobazie erotiche: “Stella, ti togli il reggiseno?” “No, lo sai che non si può”, “Stella, ti togli il reggiseno?” “No, lo sai che non si può”, “Stella, ti togli il reggiseno?” “ No, lo sai che non si può” “Stella, ti togli il reggiseno?” “No, lo sai che non si può”…
Le portavo regali costosissimi, oppure semplici e romantici fatti con le mie mani, le chiedevo di sposarmi e la scopavo sedici ore di fila dopo essermi mangiato carriole di spaghetti al peperoncino, tartufo e Viagra, le giuravo che se si fosse levata il reggiseno per tre secondi sarei diventato il suo schiavo per sempre, ma niente. Stella restava irremovibile.
Poi un giorno, senza un motivo, senza che glielo domandassi, senza che qualcosa annunciasse minimamente l’evento che desideravo da mesi e mesi e mesi, Stella si tolse il reggiseno. Fu un gesto semplice, naturalissimo, un istante breve e indistinguibile dalla poltiglia di attimi che mi era sembrato di vivere fino ad allora in attesa di quell’unico barlume di significato.
Così vidi i suoi capezzoli.
Erano due stelline, due stelline di carne rosa e tenera come le disegnano i bambini, ricoperte di pelle leggermente più scura del resto del seno. Stella si sforzò di lanciarmi uno sguardo altero, carico di sfida, ma si capiva che si vergognava, che quello era il vero motivo per cui non si era mai lasciata vedere completamente nuda. Era arrossita. Anche questo non era mai accaduto.
Mi avvicinai, le accarezzai i capelli, le guance infuocate, le labbra soffici, poi mi chinai e le baciai le stelline.

Racconto di Marco Bosonetto.